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La privacy sul web: la verità dietro la raccolta dei dati

Si sente sempre più spesso parlare della questione della privacy e di come i nostri dati siano costantemente acquisiti da parte delle aziende, ma pochi hanno chiari i motivi e le modalità di questa raccolta.

Quando si parla di web e privacy uno degli argomenti che immancabilmente salta fuori è la questione della raccolta dei dati, con la pubblica opinione eternamente divisa tra chi la considera un utile strumento per il business e chi un attentato alla vita privata delle persone. Sembra però che adesso le cose stiano per prendere una nuova piega: con il recente annuncio da parte di Apple riguardo l’introduzione del nuovo sistema ATT (App Tracking Transparency) a partire da iOS 14.5 la casa di Cupertino pare seriamente intenzionata a dichiarare guerra al web advertising e alla raccolta dati. C’è tuttavia davvero la necessità di misure così drastiche per la “salvaguardia” degli utenti o forse è la percezione di questa pratica di marketing ad essere fin troppo negativa?

Un po’ di chiarezza

In primo luogo quella che dai media spesso viene spacciata come violazione della privacy in realtà è una raccolta legittima di dati statistici aggregati. Con questa definizione si intendono tutti quei dati riguardanti la navigazione web che permettono la targettizzazione dei potenziali acquirenti, raggruppati per zona o tipologia, senza che vi sia alcuna sottrazione di dati personali: alle aziende infatti non importa sapere qual è nello specifico il tuo nome o come ti alzi la mattina, ma solo se puoi essere interessato ai loro articoli. Tale tipo di indagine è inoltre quasi sempre autorizzata dallo stesso utente finale.

Quando scaricate un app o vi collegate ad un qualsiasi servizio o social infatti per prima cosa viene chiesto di accettare alcune condizioni o termini d’uso per poter continuare: tra queste, se leggete attentamente, quasi sempre troverete la richiesta di poter utilizzare i vostri dati a scopi commerciali, compresa la vendita ad uso di terzi. Non sussiste dunque nessuna forma di furto o appropriazione indebita di elementi sensibili: è lo stesso fruitore ad autorizzare al trattamento dei suoi dati, molto spesso senza nemmeno leggere la privacy policy che gli viene proposta prima di accettarla.

In secondo luogo le informazioni raccolte con questo metodo non vanno a danno del consumatore, bensì a suo beneficio: una cosa che pochi comprendono è che, indipendentemente da quanti e quali dati siano a disposizione delle imprese, il numero di ADS e annunci presenti su social e altre piattaforme non diminuirebbe affatto… anzi! Senza la targetizzazione alla base del marketing moderno la pubblicità ritornerebbe semplicemente alla sua forma precedente, dove le aziende sarebbero costrette a bombardarci ancora di più nella speranza di intercettare i potenziali clienti.

Con i sistemi odierni invece fortunatamente questo non è più necessario: potendo individuare con un certo grado di precisione le persone interessate ad una particolare categoria di prodotti si può fare in modo che esse visualizzino annunci solo inerenti al proprio gusto, evitando di sommergere inutilmente il povero malcapitato di turno di spot di ogni tipo. Ovviamente bisogna distinguere tra caso e caso: non tutte le aziende si limitano all’uso di dati aggregati o impiegano le informazioni in loro possesso in maniera corretta, ma si tratta perlopiù di casi isolati che non dovrebbero essere confusi con la maggioranza.

L’impiego dei dati a favore della ripresa

Fatta dunque un po’ di chiarezza sulla questione privacy e appurato che i dati acquisiti normalmente dalle aziende non rappresentano alcun pericolo per l’utente, direi che possiamo tornare al punto principale: è giusto bloccare con misure così drastiche la raccolta dei dati? La risposta è: no. Per quanto possa essere comprensibile una certa apprensione quando si pensa che la propria attività online è costantemente tracciata, i fatti mostrano come tale operazione non causi alcun danno all’utente.

Al contrario eliminare potrebbe causare un grave danno all’economia, specie in questo momento: è certo infatti che, senza più la possibilità degli annunci targettizzati, molte PMI che sono riuscite a resistere prima alla crisi economica della seconda metà degli anni 2000 e poi a quella derivata dalla pandemia grazie all’e-commerce e agli ads personalizzati si troverebbero di colpo prive di uno strumento estremamente utile. Prendendo in considerazione anche il fatto che, per come stanno attualmente le cose, non possiamo essere certi di come evolverà ulteriormente la situazione, togliere alle aziende questa possibilità in nome di una privacy che non viene nemmeno realmente violata appare come una mossa priva di senso.

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